Sorpresa: il maestro bolognese non dipingeva solo bottiglie. Ad Alba una mostra ne rivela la grandezza en plein air
A dimostrare la debolezza e l’inconsistenza delle valutazioni del mercato dell’arte, che troppi ritengono decisive, quasi un «vangelo» («se un'opera vale così tanto a un'asta, non può che essere un capolavoro») giunge questa mostra incantevole di soli paesaggi di Giorgio Morandi che si apre oggi ad Alba. Oltre ai tanti meriti critici, e di efficacia e prestigio di scelta, si guadagna una ulteriore, rilevante medaglia. Nel provare quanto è stolta la convinzione del mercato, che Morandi sia un pittore grandissimo, soltanto nella sua sinfonia variata di bottiglie, scatoline e botticini; mentre sarebbe molto meno «valido» e seducente nei suoi paesaggi, o nei lirici mazzettini di fiori. L’esposizione alla Fondazione Ferrero di Alba, riservata finalmente ai soli paesaggi (l’idea fu già di Briganti) dimostra infatti che se anche il solitario riottoso di via Fondazza non fosse inciampato in quel cullato e premiato Leitmotiv delle bottiglie (l’ha reso quasi proverbiale, e talvolta persino inviso), sarebbe stato comunque un grandissimo pittore. «Di paesi», piuttosto che di paesaggi: termine che lui riteneva già fin troppo ambizioso e pomposo, e rischiosamente ampio, gravato di ipoteche storiche. Da grande conoscitore dell’antico (degli incanti di Giotto e dei Lorenzetti, trascurando un poco Domenichino), preferiva citare solo quattro nomi, via dalla mitologia: «Corot, Courbet, Fattori e Cézanne». Disposti proprio così, in riga. Anche se lui preferiva smussare gli imprinting e dirli «suoi» e basta.
In una celebre lettera, dal profilo autobiografico, confessa, a proposito di alcuni scorci tutti-Morandi (talvolta il suo en plein air avviene dalla finestra protettiva dello studio: una chiostra in basso di stenti vasi, come denti cariati): «Non sappiamo perché certe cose ci hanno così vivamente toccato e perché siamo stati indifferenti ad altre. Certo che, riguardo a questi (...) paesaggi, quello del 1940, esposto alla Biennale e di altri degli anni successivi... li ritengo miei». Tutto, qui, con modestia programmatica e quasi punitiva: ascoltando il suo sguardo lirico ed impolverato. Uno sguardo che si concentra a cannocchiale sul poco di mondo concessogli dalla sua stanzialità anche estiva tra le colline «inamene» di Grizzana: chiude progressivamente l’obiettivo e potenzia l’essenzialità tonale delle minime cose, come di pura, sbiancata poesia. Ed è ancora Longhi, a dire le cose più vere, evocando «ricordanze tonali» degne di Proust: «Infatti la lezione intima di Morandi è il chiarimento immediato della sua riduzione del soggetto, che gira al minimo; l’abolizione, in ogni caso, del soggetto invadente che parte in quarta e si divora l’opera e l’osservatore. Oggetti inutili, paesaggi inameni, fiori di stagione, sono pretesti più che sufficienti per esprimersi “in forma”; e non si esprime che il sentimento». Musicale.
La mostra parte dai suoi primi anni metafisici, per giungere ad un’intelligente conclusione, quasi mistica, ove uno degli ultimi paesaggi, alle soglie dell’informale di Fautrier e De Stael, si specchia e dialoga con l’unica, dematerializzata Natura Morta di bottiglie in mostra (a testimoniare l’inesistenza del divario). Anche i paesaggi, in fondo, a guardare questa vera e vasta «panoramica» sono oggetti inutili, ninnoli del cuore. Ma esplosivi di poesia annebbiata e rappresa, come sassi di dolcezza incomunicata. Della stessa materia impaniata di riserbi ancora chardiniani («il muto squallore nel giorno di cenere», scrive Arcangeli) che Morandi, che si mesticava da solo i colori, scopre in una vecchia terra rossa ritrovata in un angolo di magazzino, che promette in dono anche al giottesco Carrà e che proviene appunto da Assisi: forse la stessa fonte di luce cromatica, usata per certi amati affreschi del Maestro Primo.
L’inattuale Morandi non può che scomunicare l’innamorato Arcangeli, che troppo lo sospinge verso le inquietanti spiagge inamate del Moderno, cantando «il verde, friabile, incerto mormorio di alcuni» paesaggi dell’informale francese, e scoprendovi «una fattura altrettanto ardita, e più sapiente, e più modestamente ma altamente perduta nella materia delle cose, dei nebulosi affascinanti Fautrier del '28». Perdersi nelle cose, nelle materie: autentico naufragio leopardiano. In questo, la visione intellettuale, cerebrale quasi ed insoddisfatta, scheletrica di Cézanne, lascia spazio al respiro libero, incantato, sussurrato, ove la «compattezza metrica dell'insieme» vince «la fatica neocezanniana» (di tanti colleghi cubisteggianti del momento) come annota il rivale di Arcangeli, Cesare Brandi. Tutti questi nomi, a ricordare un’altra qualità della mostra, curata con amore da Cristina Bandera: tutte queste tele sono appartenute o si portano addosso il lucore di occhi amorosi e competenti di amici illustri, da Malaparte a Raimondi, da Casella a Magnani, da Vitali a Ragghianti. Uno, regalato da Antonio Baldini, al figlio Gabriele, passato alla moglie Natalia Ginzburg ed ammirato dal poeta Eliot, probabilmente ha nutrito l’occhio del giovane intenditore Carlo Ginzburg.
FONTE: Marco Vallora (lastampa.it)
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