Il nostro "paesaggio dei segni" in mostra per la prima volta al Museo del Design di Milano
La grafica fa parte di quelle cose che tutti guardano senza davvero vederle. Eppure senza la grafica gran parte della comunicazione nel nostro mondo contemporaneo non esisterebbe: dai libri al computer, dalla pubblicità al packaging, dai quotidiani alle caramelle. I grafici, poi, sono considerati semplici appendici, strani operatori dell’immagine, che devono dare forma ai prodotti, oltre che ai sogni e alle ambizioni di scrittori, filosofi, editori, imprenditori, politici, e perfino contestatori. Tutti hanno bisogno dei grafici, ma nessuno li reputa davvero importanti. Forse per questo si è dovuta attendere la quinta mostra del Museo del Design della Triennale di Milano (fino al 24 febbraio 2013) per vedere finalmente scorrere davanti ai nostri occhi un concentrato del «paesaggio dei segni», che vediamo ogni giorno percorrendo in automobile le strade delle nostre città, oppure sedendoci su una panchina di un parco con un giornale o un libro in mano.
Finalmente la grafica è entrata nel tempio del design e l’ha fatto in modo discreto eppure eclatante. Il gran mascherone rosso di Leonetto Cappiello, che pubblicizza Oxo, brodo liofilizzato della Liebig, ci accoglie sulla soglia di «Grafica italiana»: un demone sorridente, beffardo e sarcastico che il caricaturista e cartellonista, nato a Livorno, dipinse a Parigi, quasi al termine dell’Art Nouveau. E accanto, dentro le bacheche dell’allestimento di Fabio Novembre, i libri futuristi, come a sancire, fin dall’inizio, che la grafica italiana possiede origini miste, spurie, e che il discorso intorno a quest’arte quasi invisibile va fatto con duttilità e immaginazione.
Esiste uno stile italiano, qualcosa di specifico del nostro contesto visivo? Oppure no, il design grafico è invece un prodotto internazionale o sovrannazionale? I curatori della moelegante e colta, la democrazia espressiva non contrasta con l’eccellenza. Un nome per tutti: Olivetti. La vetrina e le bacheche che radunano i manufatti grafici e visivi della azienda di Ivrea sono straordinari: semplicità e intelligenza, un mix che lascia a bocca aperta ancora oggi.
I nomi di questi maestri educati a un eclettismo visivo tutto italiano – razionale e inventivo, provocatorio e classico, moderato ed estremista – sono: Albe Steiner, il più politico; Bruno Munari, il più infantile; Max Huber, il più svizzero; Bob Norda, il più razionale; A. G. Fronzoni, il più estremista; Pino Tovaglia, il più fotografico; Enzo Mari, il più designer; Massimo Vignelli, il più diagonale; Franco Grignani, il più optical; e poi ancora: Anita Klinz, Mimmo Castellano, Giuseppe Trevisani, Piergiorgio Maoloni, per non dimenticare il grandissimo Michele Provinciali o l’italo-inglese Germano Facetti. E la lista continua con Giovanni Anceschi, Italo Lupi, Pierluigi Cerri, fino a Guido Scarabottolo e agli altri grafici giovani.
La grande lezione della grafica italiana, che metta mano a un libro come a una scatola di spaghetti, al marchio di un supermercato come a una sigla televisiva, è quella della lettura: leggere e far leggere. L’immagine è sempre leggibile, sia essa un disegno o una lettera. La grafica è il medium attraverso cui si raggiunge il pubblico, i potenziali acquirenti, che non sono mai immaginati più in «basso» di chi progetta e produce. Una volta Calvino, parlando dei suoi lettori, ha scritto che lo scrittore deve supporre un pubblico che ne sa più di lui, più colto e intelligente dello scrittore stesso. Così ci hanno immaginato i grafici italiani per i due lunghi decenni della modernità italiana, prima che l’utopia della comunicazione s’infilasse nel tunnel del consumo e del marketing pubblicitario, che si figura invece un lettore (o un acquirente) più ignorante, incolto e stupido di chi produce e distribuisce. Un’ora sola dentro la «Grafica italiana» alla Triennale vale a rifarsi gli occhi e serve ad aprire la mente, per capire che si tratta di un percorso interrotto che attende ancora di essere ripreso. La grafica ha ancora molte cose da dire, e da fare, per rendere più intelligente e sensibile la nostra vita quotidiana.
FONTE: Marco Belpoliti (lastampa.it)