A Villa Badoer un’antologica dell’artista fiorentino
Nessuno è profeta in patria, tantomeno gli artisti. E così un protagonista del nostro Liberty come Galileo Chini, che tra Otto e Novecento aveva esposto a Parigi, Londra, San Pietroburgo e nel 1911-1914 era stato chiamato addirittura in Siam, perché il re Chulalongkorn (non è colpa nostra, si chiamava così) Rama V voleva fargli decorare il Palazzo del Trono a Bangkok, in Italia è stato a lungo dimenticato. Si è cominciato negli Anni Ottanta a riscoprirlo, e in un senso non solo metaforico perché in quel periodo sono stati riportati in luce i suoi affreschi nel Padiglione Italia al Lido di Venezia, eseguiti nel 1909 e malauguratamente ricoperti da una struttura di Gio Ponti nel 1928. Chini (Firenze 1873-1956) è stato, oltre che pittore, un grande creatore di vasi, come dimostra l’antologica «Galileo Chini. La luce della ceramica», collegata alla mostra del divisionismo a Rovigo, e curata sempre da Francesca Cagianelli e Dario Matteoni nella palladiana Villa Badoer di Fratta Polesine. Rimasto orfano di padre quando era ancora bambino, Chini aveva iniziato a lavorare con lo zio, che aveva una bottega di affrescatore. A diciassette anni si era iscritto all'Accademia di Firenze, dove aveva conosciuto Nomellini e Signorini, e a cavallo del secolo aveva fondato due laboratori di ceramica, «L'Arte della Ceramica» e le «Fornaci di San Lorenzo», che sono una delle ultime esperienze dell’artigianato artistico prima dell’avvento del design. Come aveva confidato a Sem Benelli (il famoso commediografo con cui collaborerà nella Cena delle beffe), il suo intento quando decorava vasi e piatti era quello di rivelare «i segreti di tutte le forme che vediamo continuamente». Voleva, diceva anche, che bevendo da una sua coppa avessimo l'impressione di accostare le labbra alle corolle dei fiori, alle bacche, alle foglie.
Per la verità, osservando le sue rose che sbocciano nel blu profondo della maiolica, o le sue foglie dorate che si avviluppano mollemente alle rotondità di un’anfora, non pensiamo subito alla natura. E fin qui niente di strano. L’arte ha più significati della realtà: per questo, come qualcuno ha scritto, se guardiamo la campagna romana ci viene in mente Corot, ma se guardiamo Corot non ci viene in mente la campagna romana. Eppure, se continuiamo a osservare quel fiorire di petali, rami, penne di pavone, girali d'acanto, o quella processione di pigne, pesci, melograni e orchidee, il pensiero della natura ci riassale con prepotenza. In un senso diverso, però, da quello che si augurava l’artista. Il fatto è che quei maggiolini che si posano sulla superficie delle maioliche, quei rami fioriti che si incurvano sulle pareti dei vasi: quell’inno alla natura, insomma, proclamato all’inizio di un secolo che invece la natura avrebbe fatto di tutto per mortificarla, se non per distruggerla, ha i caratteri inconsapevoli di un congedo. Certo, gli storici dell’arte individuano doverosamente in Chini le inquiete declinazioni dello stile: gli influssi secessionisti, il trapasso dal Liberty al Déco, il successivo recupero dei motivi classici, che del resto non aveva mai abbandonato. Tuttavia quello che più coinvolge e commuove nella mostra non è lo stile dell’artista, pur così sapiente, ma il suo gioioso e malinconico omaggio alla natura. Quasi a risarcirla, in anticipo, per quello che le avremmo inflitto dopo.
GALILEO CHINI. LA LUCE DELLA CERAMICA
FRATTA POLESINE, VILLA BADOER
FINO AL 24 GIUGNO
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