Al Pac di Milano la prima personale italiana dell’inventore delle «Teste parlanti»
La mano sta forsennatamente raschiando cinque gratta-e-vinci. Luciferini e colorati i biglietti della fortuna giganti sembrano feticci vuoti di una società da casinò tascabile. Sulla parete, l’Abramo Lincoln del biglietto da cinque dollari, vi guarda serio, ma impercettibilmente muove il labbro superiore per dirvi qualcosa che non capite. Il mondo degli oggetti inanimati, dei simboli e dell’energia economica vi guarda, vi parla, delira. Si attraversa, con sottile disagio, un parco divertimenti rovesciato, ridondante di luce e movimento. È l’universo di Tony Oursler (New York, 1957), in cui ci si può perdere al Pac di Milano, grazie a «Open Obscura», l’ampia retrospettiva (la prima personale in un museo italiano) curata da Gianni Mercurio e Demetrio Paparoni.
Le sculture immateriali, fatte di proiezioni e suoni, hanno una vita surrogata e inquietante, interagiscono con il visitatore obbligandolo a fermarsi sulle proprie difformità, sui propri limiti e credenze. Facce allungate, tirate, schiacciate, cumuli di materiali umani, pelle, occhi, espressioni, caricature, parlano senza sentire e guardano senza vedere. Sono robot inutili, cassandre spezzettate, elogio alla follia.
Tony Oursler si è formato alla CalArts di Valencia, California, la scuola fondata da Walt Disney nel 1960 sul sogno wagneriano dell’arte totale. John Baldessari e Allan Kaprow hanno insegnato lì, dove poi sono nati i mostri di Oursler ma anche i pupazzi stolti e informi di Mike Kelley e Paul McCarthy. Da lì è scaturito quell’immaginario punk-rock pieno di oggetti confusi, ridicoli, grondanti di sangue e ketchup. Una sorta di succursale colta di Hollywood, dove si fabbricano incubi individuali anziché sogni collettivi. «I giochi e i film - spiega l’artista - replicano solo una delle modalità di connetterci al nostro universo di suoni e visioni. Io sto cercando altri modi per connettere i campi della comunicazione, creando una struttura complessa, fatta di livelli di immagini, suoni, linguaggi e forme. Vivo in un mondo caleidoscopico di vecchie e nuove tecnologie e mi trovo bene».
Grosse sigarette tridimensionali si consumano come la vita, mentre ci avviamo verso la monumentale installazione intitolata Lock (2/4/6). L’attraversamento di questo campo di battaglia è come la traduzione fisica de Il pasto nudo di William Burroughs, autore amato e divorato dall’artista. «Hai idea di dove siamo?» mormora una gigantesca testa ricoperta di un materiale verde gelatinoso che gronda e rende soffocante la vista. Un orologio, una lattina di coca-cola, un telecomando gigante, una grossa lampada, scintille, accelerazione, radiografie, muri in costruzione. Sono proiezioni su sagome di legno, come quelle dei set western, che in prospettiva formano una specie di discarica del sentimento, un inferno pieno di fiori e pericoli, un costante e allucinatorio inciampo nel quotidiano.
Nel 1977, Oursler ha fondato un gruppo rock con Mike Kelley e John Miller, i Poetics con l’intento di «creare un guasto nella cultura estetica». Focalizzandosi sull’anomalo, l’informe, la psichedelia, la sgradevolezza di mozziconi umani e zone residuali, tra visioni e suoni ostici, gli artisti hanno centrato il loro obiettivo. Le implicazioni musicali di Oursler sono continuate con David Bowie e i Sonic Youth.
Per Oursler ogni campo dello scibile è un pasto da consumare velocemente. La malattia mentale è per lui uno dei principali oggetti d'indagine. Dal 1992, lavora sul DPM, Disturbo della Personalità Multipla, con persone che ne sono affette. «Judy (1994) è una complessa installazione in cui la scissione della personalità di un soggetto schizofrenico è materialmente rappresentata da quattro diverse figure», scrive Paparoni in catalogo. Oltre all'io profondo di Judy, tre altri pupazzi, Horror, Boss, Fuck you, incarnano la sua scissione. Quando, negli Anni Ottanta, Oursler cercava gente che avesse racconti di prima mano sugli Ufo, ricevendola a pagamento nello studio, ha incontrato malati psichici con momenti di altissima lucidità. Uno di loro ha continuato a tormentarlo con centinaia di telefonate. Nel suo studio-set, dove ingloba i volti in teli ritagliati per riprenderne l’ovale, è passata ogni tipologia umana, oggi prevalentemente attori.
Si potrebbe dire che una parte rilevante del suo lavoro è esso stesso affetto da schizofrenia. È spinto in una ricerca che si espande tra suono, letteratura, cinema, parola, con una molteplicità di soggetti pullulanti, di Joker dalle labbra scure. C’è un po' di Bruce Nauman, c’è Warhol in una sottile ombra a forma di fiore e ci sono i colori di Matisse che compaiono all’improvviso consolatori. È tutto in movimento, le immagini sono nervose o dolorosamente calme, i volti senza corpo. Alcune installazioni sono piccolissime, stanno nel palmo di una mano. Nell’universo di Oursler ci ritroviamo tutti come in uno specchio rotto fatto di una società interamente schizofrenica. Siamo i bulbi oculari appesi al buio come pianeti sani di una costellazione, ma siamo anche esseri mostruosi, pazzi, desideranti. Siamo temporaneamente forme o liquidi o gas, a seconda della condizione mentale che ci attraversa.
FONTE: Manuela Gandini (lastampa.it)
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