mercoledì 30 marzo 2011

La storia di Elsa


Livio Garzanti ricorda la Morante e i suoi ultimi giorni. Al funerale si presentarono solo venti persone. Lontana dalla maternità, creò la vita nei romanzi. Al suo addio Moravia venne con un’altra donna

Elsa Morante, la maggiore scrittrice del nostro Novecento, viveva nell’incanto della realtà che portava in sé, e dava una luce di magia alla sua scrittura. Creava nei personaggi la ricchezza di una profonda, dolcissima comprensione femminile.
Lei, lontana da ogni maternità, creò Useppe nella Storia, forse perché la mancanza di ciò che non si è avuto fa comprendere il vero di quanto l’esperienza non ci ha dato nell’incontro con la realtà.
Ricordo l’amore, quasi di rabbia, di mia madre per me; non riusciva a perdersi nella meraviglia dell’immaginario perché c’ero io, l’oggetto, ed ero ancora io a non lasciarle libera la visione del sogno. Elsa, con Useppe, come in una sorta di visione materna giunse alla conoscenza di quella dolce e tenera carnalità infantile che trascende i limiti dell’esperienza diretta del vivo.
Certo fu povero il matrimonio della giovane Morante con Moravia, sempre attento, con la sua mente fredda e senza trascendenze, nel guardare le cose della vita. Elsa, come Alberto, possedeva un’intelligenza con sale ebraico, ma incarnata in una donna del nostro Sud, dove i sogni portano con sé le cose. La sua presenza fisica sembrava non volersi definire nel ricordo di un corpo morbido, infantile.
In uno dei nostri primi incontri a Roma, a un tavolino di piazza del Popolo, comparve con lei in attesa, timida, piccola e magra, una donnina che Elsa mi presentò con una brevissima frase affettuosa: «È una lesbica». Più volte mi chiesi cosa vedesse nell’omosessualità, o se la sentisse con tenerezza materna. Aveva la sapienza dei «semplici» che vivono nella loro verità lontana, in quella dimensione dove anche il suicidio entra nella favola del corpo che si libera da se stesso. Lo aveva tentato, ma riuscirono a destarla quando già si credeva tra le ombre. Era il tempo felice deibarbiturici.
FONTE: Livio Garzanti (corriere.it)

venerdì 25 marzo 2011

Tony Oursler, così il video si fa mostro

Al Pac di Milano la prima personale italiana dell’inventore delle «Teste parlanti»

La mano sta forsennatamente raschiando cinque gratta-e-vinci. Luciferini e colorati i biglietti della fortuna giganti sembrano feticci vuoti di una società da casinò tascabile. Sulla parete, l’Abramo Lincoln del biglietto da cinque dollari, vi guarda serio, ma impercettibilmente muove il labbro superiore per dirvi qualcosa che non capite. Il mondo degli oggetti inanimati, dei simboli e dell’energia economica vi guarda, vi parla, delira. Si attraversa, con sottile disagio, un parco divertimenti rovesciato, ridondante di luce e movimento. È l’universo di Tony Oursler (New York, 1957), in cui ci si può perdere al Pac di Milano, grazie a «Open Obscura», l’ampia retrospettiva (la prima personale in un museo italiano) curata da Gianni Mercurio e Demetrio Paparoni. 

Le sculture immateriali, fatte di proiezioni e suoni, hanno una vita surrogata e inquietante, interagiscono con il visitatore obbligandolo a fermarsi sulle proprie difformità, sui propri limiti e credenze. Facce allungate, tirate, schiacciate, cumuli di materiali umani, pelle, occhi, espressioni, caricature, parlano senza sentire e guardano senza vedere. Sono robot inutili, cassandre spezzettate, elogio alla follia. 

Tony Oursler si è formato alla CalArts di Valencia, California, la scuola fondata da Walt Disney nel 1960 sul sogno wagneriano dell’arte totale. John Baldessari e Allan Kaprow hanno insegnato lì, dove poi sono nati i mostri di Oursler ma anche i pupazzi stolti e informi di Mike Kelley e Paul McCarthy. Da lì è scaturito quell’immaginario punk-rock pieno di oggetti confusi, ridicoli, grondanti di sangue e ketchup. Una sorta di succursale colta di Hollywood, dove si fabbricano incubi individuali anziché sogni collettivi. «I giochi e i film - spiega l’artista - replicano solo una delle modalità di connetterci al nostro universo di suoni e visioni. Io sto cercando altri modi per connettere i campi della comunicazione, creando una struttura complessa, fatta di livelli di immagini, suoni, linguaggi e forme. Vivo in un mondo caleidoscopico di vecchie e nuove tecnologie e mi trovo bene». 

Grosse sigarette tridimensionali si consumano come la vita, mentre ci avviamo verso la monumentale installazione intitolata Lock (2/4/6). L’attraversamento di questo campo di battaglia è come la traduzione fisica de Il pasto nudo di William Burroughs, autore amato e divorato dall’artista. «Hai idea di dove siamo?» mormora una gigantesca testa ricoperta di un materiale verde gelatinoso che gronda e rende soffocante la vista. Un orologio, una lattina di coca-cola, un telecomando gigante, una grossa lampada, scintille, accelerazione, radiografie, muri in costruzione. Sono proiezioni su sagome di legno, come quelle dei set western, che in prospettiva formano una specie di discarica del sentimento, un inferno pieno di fiori e pericoli, un costante e allucinatorio inciampo nel quotidiano. 

Nel 1977, Oursler ha fondato un gruppo rock con Mike Kelley e John Miller, i Poetics con l’intento di «creare un guasto nella cultura estetica». Focalizzandosi sull’anomalo, l’informe, la psichedelia, la sgradevolezza di mozziconi umani e zone residuali, tra visioni e suoni ostici, gli artisti hanno centrato il loro obiettivo. Le implicazioni musicali di Oursler sono continuate con David Bowie e i Sonic Youth. 

Per Oursler ogni campo dello scibile è un pasto da consumare velocemente. La malattia mentale è per lui uno dei principali oggetti d'indagine. Dal 1992, lavora sul DPM, Disturbo della Personalità Multipla, con persone che ne sono affette. «Judy (1994) è una complessa installazione in cui la scissione della personalità di un soggetto schizofrenico è materialmente rappresentata da quattro diverse figure», scrive Paparoni in catalogo. Oltre all'io profondo di Judy, tre altri pupazzi, Horror, Boss, Fuck you, incarnano la sua scissione. Quando, negli Anni Ottanta, Oursler cercava gente che avesse racconti di prima mano sugli Ufo, ricevendola a pagamento nello studio, ha incontrato malati psichici con momenti di altissima lucidità. Uno di loro ha continuato a tormentarlo con centinaia di telefonate. Nel suo studio-set, dove ingloba i volti in teli ritagliati per riprenderne l’ovale, è passata ogni tipologia umana, oggi prevalentemente attori. 

Si potrebbe dire che una parte rilevante del suo lavoro è esso stesso affetto da schizofrenia. È spinto in una ricerca che si espande tra suono, letteratura, cinema, parola, con una molteplicità di soggetti pullulanti, di Joker dalle labbra scure. C’è un po' di Bruce Nauman, c’è Warhol in una sottile ombra a forma di fiore e ci sono i colori di Matisse che compaiono all’improvviso consolatori. È tutto in movimento, le immagini sono nervose o dolorosamente calme, i volti senza corpo. Alcune installazioni sono piccolissime, stanno nel palmo di una mano. Nell’universo di Oursler ci ritroviamo tutti come in uno specchio rotto fatto di una società interamente schizofrenica. Siamo i bulbi oculari appesi al buio come pianeti sani di una costellazione, ma siamo anche esseri mostruosi, pazzi, desideranti. Siamo temporaneamente forme o liquidi o gas, a seconda della condizione mentale che ci attraversa.

FONTE: Manuela Gandini (lastampa.it)

giovedì 24 marzo 2011

Intelligence: un metodo per la ricerca della verità

Presentato presso l'Ordine dei Giornalisti di Roma, il capolavoro letterario di Angelo JANNONE


Roma, 24 Marzo 2011 - Nalla sala Efisio SERRA dell'ODG di Roma, è stato presentata oggi, l'ultima fatica letteraria del Dott. Angelo Jannone,  ex ufficiale dei carabinieri, autore di numerose inchieste importanti di mafia, riciclaggio e narcotraffico, che è poi entrato nel Gruppo Telecom Italia da cui si e' dimesso in seguito ad una inchiesta giudiziaria. Davanti ad un pubblico molto interessato alla presentazione, costituito da giornalisti, rappresentanti delle istituzioni (tra cui funzionari della Presidenza del Consiglio dei Ministri) si sono succeduti, nei loro incisivi interventi, il Professor Gian Maria FARA, Presidente dell'EURISPES (Istituto di Studi Economici, Politici e Sociali), il Dott. Roberto PENNISI, Sostituto Procuratore Nazionale Antimafia, il Dott. Alberto CISTERNA, Procuratore Aggiunto DNA, il Dott. Massimo MARCIANO dell'Associazione Stampa Romana, Davide FONTE di Sky Italia e Giuseppe MICELI Giurista del Parlamento della Legalità; tutti i presenti sono stai concordi nel dire che il bellissimo libro di Angelo JANNONE ha un duplice obiettivo, quello di esaltare l'etica dell'intelligence nella ricerca della verità e quello di dare al lettore un valido strumento per accrescere le sue nozioni nel campo dell'intelligence, in un mondo sempre più dominato da Internet. Nel corso dell'evento è stato inoltre presentato in anteprima, il primo corso di Giornalismo Investigativo organizzato dal CONSCOM (Registro Nazionale Sociologi e Consulenti della Comunicazione), che probabilmente inizierà il prossimo mese di settembre ( www.conscom.it  ).
Breve recensione del libro
Lo scenario del crimine si è fatto molto più competitivo e molte forme di business criminale si sono affermate grazie alla globalizzazione, prima fisica poi virtuale. Il mondo delle imprese si è ritrovato ad affrontare, nel volgere di pochi anni, nuove forme di minaccia e nuovi rischi, tutti conseguenza della globalizzazione. L’effetto della “pressione” è stato il sorprendente numero di tracolli finanziari e dei casi di malgoverno aziendale (da ENRON a Parmalat per citare i principali) che ha spinto i legislatori a svolgere una funzione di supplenza nel governo dell’economia con tutta una serie di strumenti legati alla cosiddetta Corporate Governance (d.lgv 231/01, Serbanes/Oxley Act, l.262/95) che, insieme ad altri vincoli normativi (quali ad es. il TU Privacy ecc. o le legislazioni legate al concetto di sviluppo sostenibile), sorti come strumenti di prevenzione, paradossalmente, sono stati portatori a loro volta di ulteriori rischi di natura legale. L’effetto finale, in uno scenario economico globale, ma con framework normativi non altrettanto globali, è stato quello di penalizzare le aziende dei paesi moderni.
di Alessandro NANNI (Giornalista Investigativo)

giovedì 10 marzo 2011

La seduzione della modernità

Sofisticata, ribelle ed eclettica, fu la ritrattista del jet set negli Anni 30. Roma la celebra dall’11 marzo al Vittoriano

Estrosa, trasgressiva, emancipata, anticonformista, seduttrice nell’intreccio di amori e disamori bisessuali, insofferente ai vincoli, insomma una donna moderna già ai tempi suoi, gli anni folli ‘20 e ‘30 del secolo scorso: questo era Tamara de Lempicka. Nata a Varsavia in data incerta, forse 1898, Tamara Rosalia Gurwik-Gorska, poliglotta, cresciuta tra i fasti morenti della Russia zarista, profuga a Parigi nel ‘18, scelse di presentarsi al Salon d’Automne nel ‘22 come il russo signor Lempitzki (dal cognome del marito Tadeusz Lempicki): era convinta che per un uomo le vie dell’arte fossero più facili, proprio mentre la moda russa imperversava a Parigi. Poi divenne cittadina del mondo, protagonista del jet set cosmopolita che oscillava fra l’Europa e l’America (a Beverly Hills approdò in compagnia del secondo marito barone Raul Kuffner). Il successo della sua arte dall’acuta e ambigua sensibilità divenne planetario: era la ritrattista del bel mondo internazionale.

«Regina della modernità» venne definita per la capacità di unire lo sguardo contemporaneo all’antico, nonché per l’attenzione al «marketing» e alla visibilità della propria immagine in anticipo sui tempi. Appassionata di cinema, foto, grafica pubblicitaria, moda, si calò in tutto da ammiratrice e protagonista. Riuscì ad ammaliare personaggi come Marinetti, Prampolini (è una scoperta), D'Annunzio, poi Gide che lei ritrae, Dalí, star di Hollywood come Greta Garbo, Marlene Dietrich, Louise Brooks. E nel dopoguerra anche Andy Warhol fu soggiogato dai suoi aspetti moderni. Ora il Complesso del Vittoriano a Roma la celebra con una preziosa mostra che su due piani schiera in campo 80 dipinti, una prima parte dagli esordi al ‘39, la seconda dal ‘40 al ‘57. Li affiancano 30 disegni, 50 foto in parte inedite, due film, e le opere di 13 artisti polacchi a lei vicini. Un omaggio curato con passione da Gioia Mori (autrice della personale a Palazzo Reale di Milano nel 2006), promosso e realizzato da Comunicare Organizzando di Alessandro Nicolosi. Le opere, poderosi ritratti, voluttuosi nudi femminili, pregevoli nature morte, interni di case, qualche concessione all’umanità sofferente che da profuga sapeva catturare e apprezzare, accanto a nobili, ricchi, famosi, provengono da musei internazionali e collezionisti gelosi come gli attori Jack Nicholson e Anjelica Huston. Di Nicholson è (con altri 4 dipinti) l’inquietante ritratto in alta uniforme del Gran Duca Gabriele, 1926, dal cadaverico volto consunto da malattia, a contrasto con il rosso sfolgorante della giacca ricoperta di alamari e medaglie.

La sua pittura oscilla è influenzata da avanguardie e movimenti contemporanei (Costruttivismo russo, Futurismo, Cubismo, Realismo Magico). Frequenta le lezioni di Maurice Denis e di André Lothe, con lo sguardo spalancato ai maestri italiani del Rinascimento, scrive a D’Annunzio di studiare Pontormo, cita Carpaccio, ripensa Botticelli, né trascura la statuaria romana o le levigatezze di Hayez, ma soprattutto attinge a Ingres, maestro di linee e forme. È lui all’origine di dipinti come i nudi del ‘23-25, quando non incrocia il Vermeer de La ragazza con l’orecchino, rinverdito in Ragazza con le viole, 1945. Il suo estro sta proprio nel mescolare maniere e stili diversi come in un calderone ribollente trasformandoli in cifra personale che tutto domina e avvolge, fino a renderla unica come icona del Déco.

Le linee sinuose, i volumi scultorei, le superfici smaltate, i colori splendenti, i blu e verdi si esaltano nelle amazzoni da lei amate, Ira Perrot in Il telefono II 1930, e nei 5 nudi provocanti di Rafaela, per la prima volta presentati insieme. Caschetto alla garçonne, occhi di ghiaccio, labbra rosse carnose, lunghe dita dalle unghie verniciate (nutriva un’ossessione per le mani), le sue eroine muovono al volante di una Bugatti (lei girava in una Renault gialla) con sciarpe svolazzanti, sigaretta in bocca, sedotte dalla velocità e dai miti del progresso, come i grattacieli che vediamo sul fondo dei dipinti dopo il soggiorno negli Usa del ‘29. Riservava tenerezza, tinte rosate o il bianco, per la figlia Kizette, immortalata a Cannes nel 1936 in Kizette in rosa. Agli uomini concedeva eleganza, disinvoltura, pose o atteggiamenti studiati, un certo mistero come nel memorabile Ritratto del principe Eristoff dal fondo allusivo, o quello del marchese d'Affitto. Morì a Cuernava nel 1980, onori e successi alle spalle, distribuendo parte cospicua dell’eredità a orfanotrofi o bisognosi.

TAMARA DE LEMPICKA. LA REGINA DEL MODERNO
ROMA, COMPLESSO DEL VITTORIANO
FINO AL 10 LUGLIO
 
FONTE: Fiorella Minervino (lastampa.it)